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Trento, 1 giugno 2009
"Le vene aperte del delitto Moro"
Mercoledi 3 giugno 2009, alle 17,30, a Trento,
nella Sala degli Affreschi della Biblioteca comunale, via Roma 55

il Centro Studi sulla Storia dell’Europa Orientale organizza l’incontro-dibattito
di presentazione del volume:
«Le vene aperte del delitto Moro».
Intervengono Marco Boato, Fernando Orlandi e Salvatore Sechi.

Per la curatela di Salvatore Sechi, è appena stato pubblicato il volume (Le vene aperte del delitto Moro, Pagliai Editore) che raccoglie alcuni saggi figli del convegno organizzato a Cento nel marzo 2008 dall’Università di Ferrara, e a cui il Centro Studi sulla Storia dell’Europa Orientale collaborò.

“Vene aperte”, perché, come scrive Sechi nell’introduzione al volume, ci sono “domande ancora appese, quasi conficcate, ai punti interrogativi, smarrimento delle interpretazioni, particolari grandi e piccoli che, ognuno animato da una logica interna quasi sempre assoluta, si infoltiscono sulla filiera”.

Nel suo contributo, Luigi Carli, il pubblico ministero che si occupò della colonna genovese delle Brigate rosse, mette in evidenza la separatezza dell’organizzazione dalla classe operaia, che segnò la fine del brigatismo genovese. La testimonianza di Carli, contrasta con quella di Marco Clementi, che nei suoi studi ha messo in evidenza l’estrazione dei brigatisti dal bacino del proletariato di fabbrica. Un fenomeno settentrionale, con le radici negli agglomerati urbani e nelle grandi fabbriche del triangolo industriale. Nel suo contributo Clementi prende accuratamente in esame la “memoria difensiva” di Moro.

Roberto Bartali si occupa dell’atteggiamento del Pci nei confronti del terrorismo, dall’ambiguità iniziale alla svolta che coincise col sequestro, nel dicembre 1973, di Ettore Amerio. La svolta si tradusse, come ricorda Bartali, in una collaborazione tra l’attività di raccolta di informazioni intrapresa dal partito e polizia e carabinieri.

Rimaneva, comunque, l’ingombro del passato, quello che Rossana Rossanda chiamò “l’album di famiglia”. Come ha ricordato Alberto Franceschini, “a Reggio Emilia sapevano che io e gli altri eravamo nelle Br anche se nessuno lo ammetteva ufficialmente. Così io potevo tornarmene nella mia città per la Festa dell’Unità e mangiare tranquillamente ai tavoli con i compagni di pochi anni prima”.

Non perché il Pci abbia mai optato per il terrorismo, ma per quel che aveva comportato la disciplina a Mosca, alla casa madre del comunismo internazionale, e all’Unione Sovietica, un paese dedito all’espansionismo.

In questa prospettiva, la Cecoslovacchia assume un ruolo paradigmatico. Ancora oggi anima discussioni accese, opinioni divergenti che ritornano anche tra gli stessi collaboratori di questo volume (Roberto Bartali, Franco Mazzola, Fernando Orlandi e Salvatore Sechi).

Nel volume, utizzando le carte di archivio, la questione è affrontata da Fernando Orlandi, che deplora l’uso parziale, selettivo o, peggio, l’omissione della documentazione archivistica (a cominciare da quella della Repubblica ceca, accessibile da molti anni). Molte delle voci circolate sulla Cecoslovacchia, in realtà sono frutto di introssicazioni e di informazioni non verificate.

L’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi di informazione e sicurezza, Franco Mazzola, non ha dubbi nel dare testimonianza del fatto che le voci sulla pista ceco-sovietica e quella mediorientale, per spiegare il terrorismo, erano quelle prevalenti al Viminale

Vladimiro Satta, abituato da sempre a scombinare la quiete dei conformismi, ricostruisce la risposta dello Stato al terrorismo, prendendo in esame sia gli apparati che la legislazione.

Gabriele Paradisi ricostruisce la vicenda del consigliere Renzo Rota e dei sospetti avanzati sul ruolo dell’Unione Sovietica. Se da una parte alcuni pensano ad una pista dell’Est, dall’altra ne è cresciuta un’altra di segno diametralmente opposto, storiograficamente battezzata come “teoria dell’eversione atlantica”, che vede nella Cia e negli Stati Uniti i responsabili ultimi. A questa storiografia è dedicato il lavoro di Sechi.

Richard Drake è uno dei maggiori storici nordamericani dell’Italia contemporanea. Drake, che per anni si è occupato anche delle vicende del terrorismo, in polemica con le teorie complottistiche, conclude che le ragioni della morte di Moro vanno ricercate nelle idee di chi ne è stato il killer: “Mi resi conto infatti di quanto le Brigate rosse appartenessero ad una tradizione rivoluzionaria che affondava le proprie radici nella più classica critica marxista del capitalismo”.

Il libro viene presentato e discusso mercoledì 3 giugno, alle 17,30, a Trento, nella Sala degli Affreschi della Biblioteca comunale (Via Roma 55). Intervengono due degli autori, Fernando Orlandi e Salvatore Sechi, e Marco Boato.

Le vene aperte del delitto Moro, a cura di Salvatore Sechi (Mauro Pagliai Editore, pp. 360, euro 23), raccoglie, contributi di Roberto Bartali (saggista), Luigi Carli (procuratore della Repubblica), Marco Clementi (Università della Calabria),Richard Drake (Università del Montana), Franco Mazzola (già sottosegretario alla difesa e alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi di informazione e sicurezza), Fernando Orlandi (Centro Studi sulla Storia dell’Europa Orientale), Gabriele Paradisi (saggista, dirige www.cielilimpidi.com), Vladimiro Satta (Servizio studi del Senato), e Salvatore Sechi (Università di Ferrara).

Indice
Salvatore Sechi, Introduzione
Richard Drake, Il delitto Moro trentanni dopo
Marco Clementi, La memoria difensiva di Aldo Moro
Luigi Carli, La colonna genovese delle Brigate rosse
Roberto Bartali, Il Pci e le Brigate rosse
Fernando Orlandi, A Praga, a Praga! Storia, leggende e malcostume di una vicenda italiana
Gabriele Paradisi, Quegli ottusi servitorelli
Franco Mazzola, Il caso Moro visto dall’interno del Palazzo
Vladimiro Satta, La risposta dello Stato ai terrorismi: gli apparati e la legislazione
Salvatore Sechi, Il delitto Moro e la teoria comunista dell’“eversione atlantica”

 

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